È da poco stato dato alle stampe, per i tipi di Jouvence, Benjamin e l’incanto di Tommaso Scarponi. Il testo è nato da una serie di appunti sparsi che, intrecciandosi, hanno fatto apparire alcuni spazi del pensiero di Walter Benjamin che la pur sterminata bibliografia critica aveva lasciato inesplorati. Il libro è diviso in tre capitoli.
Nel primo sono indicate alcune delle fondamentali esigenze del pensiero benjaminiano: il continuo, reciproco richiamarsi del problema del linguaggio con quello della storia, mediati dalle riflessioni giovanili intorno alla pittura, capace di esprimere la discontinuità inaggirabile di simbolo e allegoria, di spirituale e mitologico, di verità e conoscenza. La questione della gnoseologia connessa al tema del tempo e della morte, trova il suo esito nella formulazione della teoria dell’immagine dialettica, o, proustianamente, della memoria involontaria. Nell’idea di gesto, infine, Benjamin scorge, attraverso Kafka, la via per risolvere l’aporia del linguaggio strumentale, che permea di sé l’intero pensiero moderno, per approdare a una inaudita riedificazione (parodistica) del perduto Eden.
Il secondo capitolo è diviso in due sezioni. La prima illustra la feroce critica del concetto di esperienza offerto dalla filosofia moderna, alla cui base Benjamin vede un fondamentale principio di violenza. L’itinerario prende in esame testi fino ad ora mai affrontati dalla pur sterminata letteratura critica su Benjamin, che chiarificano una strettissima affinità con Kafka. La seconda sezione di questo capitolo, complementare alla prima, è interamente dedicata alla riflessione benjaminiana sul linguaggio, che sola garantisce l’oltrepassamento di quei limiti imputati al pensiero moderno da Kant fino a Husserl. Insistendo sui richiami che intrecciano fra loro gli scritti sul linguaggio e quelli sull’astrologia, da una parte, e i verbali degli esperimenti con la droga, dall’altra, è possibile ricavare il coerente compimento di ciò che già nell’Origine del dramma barocco tedesco era indicato come l’‘arte del geroglifico’, espressione dell’infanzia edenica e pre-linguistica che ogni conoscenza si sforza di attingere.
Il terzo capitolo indica l’analogia sotterranea che lega i tre capolavori benjaminiani – la tesi di dottorato sulla critica romantica, il libro sul Trauerspiel e quello, incompiuto, su Parigi. Attraverso la comparazione del concetto barocco di allegoria e della concezione della critica dei romantici tedeschi, da una parte Benjamin indica la fondamentale continuità teorica tra il Barocco e il Romanticismo, e, dall’altra, vede questa continuità come l’insostituibile lente per affrontare il problema della storia, che è quello del messianismo, e quindi della politica. Così, nell’idea della critica letteraria si incontrano le indagini intorno al linguaggio e le ossessioni teologico-politiche di Benjamin, che solo attraverso la letteratura può definire il potenziale sovversivo di un concetto come l’immagine dialettica. L’esito di questo itinerario è il riflusso di questo stesso movimento, che solo distruggendo la propria natura parodistica può essere autenticamente messianico: al paradigma surrealistico del sogno, subentra così la dottrina del risveglio, in cui il pensiero può finalmente rivolgersi, dis-incantato, alle cose.
Considerato nel suo insieme, il saggio risponde a due esigenze, che, a quanto ci risulta, non hanno ancora trovato soddisfazione nella bibliografia critica italiana, tedesca e francese: 1) ripercorrere criticamente tutto l’arco speculativo dell’autore, esprimendo la fitta trama di interconnessioni che regge l’intero corpus benjaminiano (la maggior parte delle monografie dedicategli, si soffermano quasi sempre su un singolo aspetto dell’opera); 2) analizzare, in ciascun capitolo, al tempo stesso le ‘ascendenze’ e le ‘discendenze’ di Benjamin, esponendo, da una parte, il suo dialogo con quegli autori e quelle correnti di pensiero che ricorrono nelle sue pagine (dalla Qabbalah ebraica all’ermetismo cristiano, fino ai romantici e ai suoi contemporanei), e, dall’altra, insistendo criticamente sulle interpretazioni offerte da quei filosofi e scrittori (soprattutto italiani e francesi) che, coscientemente o meno, hanno riarticolato gli schemi, le categorie e i concetti propri del pensiero benjaminiano fino a farne la cifra della critica, della letteratura e della filosofia contemporanee.
Titolo: “Benjamin e l’incanto”
Autore: Tommasco Scarponi
Edizione: Jouvence, 2021
ISBN: 9788878018167
Quel Benjamin che «durante l’esilio parigino degli anni Trenta […] era in relazione con in circolo dei proto decostruzionisti del Collège de Sociologie diretto da Georges Bataille, Pierre Klossowski, Roger Callois e Michel Leiris».
Sarebbe da indagare più a fondo la costellazione referenziale, che allappa tremendamente il palato di chi fu fervente seguace della dialettica dell’illuminismo, speranzoso che portasse una nuova luce, quando invece tale avviluppo era intriso sin nelle fondamenta dal più oscurante esoterismo di matrice cabalistica. Ci riferiamo ai nomi in gioco quali quello di Franz Rosenzweig, Emmanuel Levinas e dritti dritti a Martin Buber, i quali preparavano solerti una vera e propria descensus ad inferos.
Un altro elemento assai curioso è scoprire che in personalità così razionali come quella di Walter Benjamin, compare di Adorno, albergasse una autentica ammirazione nei confronti del mago nero Cagliostro:
«Secondo Benjamin […] il ruolo di Cagliostro come messaggero dell’occulto è quello che ha fatto di lui un titano nella storia […]. Benjamin considerava Cagliostro come un messia clandestino, e un genio della sregolatezza che andava predicando l’irrazionalità creativa in un mondo repressivo.
Per Benjamin […] Cagliostro rappresentava il salutare granello di sabbia che fa inceppare l’ingranaggio dell’Illuminismo».