L’OCCHIO ASSOLUTO – PARTE SECONDA

L’OCCHIO ASSOLUTO – PARTE SECONDA

di Lorenzo Centini

Ciò di cui questo libro vorrebbe occuparsi è un simbolo totale: l’Occhio Assoluto. Con questo nome generico individueremo in realtà molti simboli in esso nascosti e composti. Conviene subito delimitare l’oggetto del nostro sguardo; per farlo ripartiamo immediatamente da dove ci eravamo interrotti, cioè la differenza tra simbolo totale e simbolo parziale.

L’oggetto del nostro sguardo sarà l’Occhio come simbolo totale, cioè in quanto Occhio e basta. Ogni cultura, sia in senso geografico che sociologico, ha inserito questo simbolo nel suo repertorio, interpretandolo quindi in senso parziale, legandolo a determinate narrazioni o catene mitografiche ed evenemenziali. Ma come per la Croce, così anche l’Occhio massonico o l’occhio di Ra, cioè il nostro simbolo osservato da punti di vista parziali, implica il simbolo totale. Non potrebbe essere altrimenti: la totalità è legata alla fruizione assoluta e immediata dell’essere umano in quanto animale; la parzialità richiede invece un legame successivo, un giro in più attorno al quadro.

Come la croce è percepita prima e da sempre in virtù del suo nodo geometrico, cioè il suo essere un incontro di rette, così l’Occhio è percepito prima e da sempre in virtù della sua appartenenza al corpo. Solo successivamente l’Occhio così percepito viene incastonato in una parzialità e diviene ora l’occhio di Ra, ora l’Occhio di Iside, ora l’Occhio Massonico ecc. Senza l’avvio dalla totalità nessuna costruzione parziale è possibile e reale.

Non è tuttavia una tassonomia che si riduca al prima e dopo. Non parliamo qui di stadi, ne’ in senso logico ne’ in senso temporale. Non possiamo individuare due stadi, così da trovare prima l’Occhio come simbolo totale per poi vedercelo parzializzare da diverse culture e società. Nel momento in cui si comincia a percepire qualcosa come simbolo, cioè si comincia a presentarlo come concrezione di significati e lo si astrae dall’occhio di ciascuno, subito nasce l’Occhio come simbolo totale; e non appena il simbolo nasce al mondo ed esce dalla trappola di astrattezza e concretezza insieme in cui ogni oggetto è tenuto prigioniero, già comincia ad essere inserito in storie, miti e cornici. Come un bambino comincia ad invecchiare appena nasce così un simbolo diventa parziale non appena viene isolato.

La tassonomia che ci è lecito però scontornare è, possiamo rischiare, una tassonomia dell’implicazione. La parzialità del simbolo non può esistere senza la sua fonte totale. Se il cuore non rappresentasse di per se’ alcuni significati il simbolo “Cuore di Cristo” non potrebbe avere alcun significato. La totalità del simbolo è l’ultimo silenzio prima di entrare nella parzialità delle storie, leggende e cornici.

L’Occhio pertanto qui ci interessa come simbolo totale, cioè come insieme dei significati anche ortogonali contenuti nell’esperienza naturale che gli uomini hanno fatto dell’Occhio nella loro vita. Esperienza con il proprio organo oculare, con gli occhi altrui, con gli occhi degli animali e in seguito con i tracciati mentali che essi hanno cominciato a produrre quando l’occhio è uscito da se’ stesso e ha cominciato ad essere associato a fenomeni esterni all’uomo e non naturali, come il Cielo, Dio, fino alla sua dematerializzazione finale con locuzioni come “Terzo Occhio” o “Occhio interiore”.

L’Occhio come simbolo ovviamente, come tutti i simboli derivanti dalla autopercezione dei sensi, è tanto quanto parlare della sua azione, il vedere. E’ codesto un fatto del pensiero che non possiamo apprezzare se non rimanendo nel perimetro della totalità: l’occhio vede è come dire l’Amore ama. L’Occhio di Ra è tale perchè l’Occhio in se’ è la vista: solo in un secondo momento il suo appartenere a Ra costituisce una proposizione simbolica ulteriore e specificante.

Nel simbolo “Occhio di Ra” l’uomo misura la distanza tra la sua visione, legata all’organo oculare, che ha sperimentato per decenni e continua a sperimentare, e la visione di Dio, presente graficamente grazie alla rappresentazione dell’Occhio. Prima l’Occhio esiste come sinolo di tutte le impressioni sulla visione; quindi in quanto luogo dove far confliggere e dialogare tutte le implicazioni del “vedere”; solo dopo esso si bagna in una mitografia o in una storia speciale.

I motivi per interessarsi all’Occhio sono davvero molti. Innanzitutto è, per certi versi, IL simbolo, perchè rappresenta la porta attraverso quale la prima fruizione di ogni simbolo e di ogni sua nuova iterazione è possibile.

Si può accomunare in questo alla Luce, la quale assume nei sistemi simbolici di moltissime culture quella base noetica, quel fascio che accende la mente e senza il quale nessuna riflessione analitica o sintetica della mente è possibile. Ma mentre la Luce è un simbolo di cui l’uomo non può considerarsi portatore, giacchè essa nella sua esperienza naturale è sempre ricevuta, l’Occhio l’uomo invece lo ha, sa che è suo. In certi momenti di lucidità sa che lo sta usando proprio per vedere e vedersi. Parafrasando Maurice Merleau-Ponty l’uomo è un occhio, non lo possiede.

Il suo essere un organo di cui l’uomo ha contezza autonoma, cioè sa che è una sua parte e non un suo attributo, ci apre altri sentieri. Uno va nella direzione del limite. L’occhio, che è il ricettacolo del Vedere, è uno dei modi di farlo, e per giunta imperfetto e caduco come ogni cosa umana. L’uomo prima conosce il Vedere perchè vede; quindi incista il Vedere nell’occhio perchè lo nota negli altri e in se’; infine si rende conto dello steccato che ha di fronte. Appena ha finito di eccitarsi per aver capito quale potenzialità ha il suo occhio che gli permette il vedere, subito si intristisce per ciò che l’occhio non può dargli. Come nel simbolo delle mani giunte e della prosternazione l’uomo esplora il senso di inadeguatezza che gli da il suo corpo fisico e i limiti della sua mobilità, oltre che la sua mortalità, così il simbolo dell’occhio bendato è già una forma icastica di illustrarne i limiti. Ma se serve una benda, o una palpebra, per chiarire che delle impotenze dell’occhio si sta parlando, l’intuizione del suo limite non necessita di alcuna aggiunta grafica o simbolica. L’uomo nel momento in cui vede comprende anche che non vede tutto.

Il legame tra Occhio e limite emerge inconscio nella simbologia. L’occhio che tutto vede, se inserito in un contesto, è sempre in Alto. E’ quasi sempre sovradimensionato rispetto a noi. E questo non solo per acclararne la natura divina; è come se l’umanità si giustificasse, tamponando il limite dell’occhio con aggiunte, fronzoli e modifiche , le quali però, come la cosmesi, sono alla fine il modo migliore per ribadire ciò che intenderebbero nascondere. Non basta che l’Occhio sia divino per vedere tutto: inconsciamente lo si mette in alto, perchè l’uomo che ha dipinto o disegnato tale simbolo sa che il suo sguardo, il suo vedere, è interrotto all’orizzonte da mille ostacoli e si sperde dopo qualche chilometro.

Quando l’uomo chiude gli occhi nulla gli si offre più: l’uomo sperimenta anche la propria volontà legata alla sua percezione. Lui decide di chiudere l’occhio, si impone un limite: più ancora dell’udito e incomparabilmente più del tatto o del gusto l’uomo ha a disposizione l’interruttore di un suo senso, di cui si può arbitrariamente privare. L’uomo non può decidere di non sentire, di non gustare o di non percepire tattilmente, a meno di non astenersi da qualsiasi stimolo nei rispettivi campi. L’uomo può, invece, imporsi di non vedere, ancorchè anche questo sia a ben vedere un artificio, giacchè egli nei fatti Vede sempre, ma non il mondo esterno. Lo scuro che si auto-impone con la palpebra abbassata è la cosa più vicina ad una castrazione auto-inflitta, è l’unico campo in cui l’essere umano può esercitare la sua volontà contro una facoltà naturale molto preziosa. Egli può esercitarsi nel limite e nell’autolimitarsi e insieme imparare diligentemente e laboratorialmente tutta la potenzialità, necessità e miserie insita nell’occhio e nella visione umana.

Il secondo sentiero ci porta nella sua essenza di passepartout esplicativo. Le metafore non sono mai casuali od opportunistiche. La metafora è, quasi, un simbolo letterario e assolve la stessa identica funzione di studio vivente, di cappa aspirante nel laboratorio del pensiero. Adoperare una metafora al posto di un’altra o non usarla ha un significato ben alternativo e di per se’ imprime una traccia prima ancora che il pensiero dialogico e analitico cominci a funzionare a pieno regime su un concetto.

Una volta scoperta e tematizzata dentro se’ stesso il Vedere e la Visione, una volta rapprese nel simbolo dell’Occhio, diventò naturale e fecondo per l’uomo impiegare locuzioni come Occhio interiore o Sguardo interiore. In parte qui qualcuno potrebbe vedere la normale estensione dell’applicazione di uno strumento concettuale: quando uno strumento è utile perchè non usarlo fuori dal suo contesto natìo? Nello stesso modo abbiamo oramai allargato la locuzione vita per descrivere i nostri cambiamenti nel corso di anni in molti campi: vita lavorativa, vita sessuale, vita spirituale, e molti altri.

Ci troviamo qui qui però, a mio avviso, di fronte ad un fenomeno nuovo. L’uomo è plasmato dall’impiegare la metafora dell’Occhio anche per descrivere l’osservazione della sua vita interiore o usa questa metafora a ragion veduta? Cosa accadrebbe se invece di usare l’espressione occhio interiore si usasse orecchio interiore o naso interiore? Probabilmente tutta la tassonomia psicologica e psicodinamica dell’uomo cambierebbe, assieme al mondo di metafore costruite sulla prima metafora, cioè quella dell’Occhio.

Vi sono motivi naturali abbastanza ovvi per questa scelta. La vista è, per la specie umana, il senso più sviluppato e quello su cui su questa scorta fa più affidamento. Traiamo più informazioni sicure da uno sguardo rispetto ad un odore o ad un suono. Avendo ansia, soprattutto noi occidentali, di rendere conto di ciò che abbiamo dentro come si renderebbe conto di una stanza o di un fenomeno naturale, siamo portati a figurarci la nostra capacità inquisitiva con i contorni della visioni e a manifestarla nell’Occhio.

Lo studio dell’Occhio quindi è, nello studio del simbolo, l’esplorazione della modalità preferita con la quale noi esseri umani, e in particolare noi occidentali, definiamo il nostro sforzo del conoscere. Siccome c’è differenza, e ampia, tra aguzzare la vista per prevedere una conclusione o tendere l’orecchio per intuire un’idea, cercare nel simbolo dell’Occhio quel che noi ci aspettiamo e vogliamo aspettarci dalla Visione non è peregrino.

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