“Coerenza: mi sono svegliato, stamane, con questa parola in bocca” queste le parole che accolgono il lettore quasi alle prime pagine del libro “Noi credevamo” di Anna Banti. Ed è proprio la coerenza di un uomo con le sue idee, sebbene ammansite, deluse, arrese il concetto che domina l’intero romanzo pubblicato nel 1967.
Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti, restituisce al lettore una storia immaginaria ma coinvolgente come solo la verità sa esserlo, un romanzo ma l’autrice stessa amava definire i suoi romanzi non storie inventate ma “interpretazione ipotetica della storia”.
In una Italia ancora divisa e spesso incarcerata nelle prigioni borboniche, la Banti decide di far vivere la sua storia a suo nonno, Don Domenico Lopresti, realmente rivoluzionario garibaldino.
Don Domenico ripercorre la sua vita di agitatore politico scrivendo un memoriale nella città di Torino in cui ormai è riparato dopo l’ennesima delusione rivoluzionaria. Nelle sue memorie, emerge però tutta la forza irruente del presente in cui esse sono narrate tanto da creare nella mente del lettore l’effetto del flashback in senso tanto vivo da poterlo definire cinematografico.
La Banti però non usa l’espediente del personaggio semi-immaginario per raccontare fatti reali, ma l’espediente di fatti reali per raccontare un personaggio semi-immaginario che diviene portavoce dei tanti che vissero quel periodo di ideali e sconfitte interiori. A dominare il romanzo infatti è la psiche, la vita, le ispirazioni e le delusioni politiche di Don Domenico, uomo del sud “di incrollabile credo repubblicano” pronto a correre incontro a Garibaldi con un fucile quasi scarico e con un manipolo di straccioni armati di coltello per unirsi ai suoi volontari. Don Domenico, l’amico dei notabili che fanno la rivoluzione come Castromediano e Poerio, che marcisce nelle carceri borboniche sopportando le angherie degli sgherri e dei carcerieri stoicamente, ma riversando nel memoriale torinese i suoi veri pensieri, sentimenti e angosce di quelle ore di prigionia.Utilizzando gli occhi del protagonista e narratore, veniamo gettati nelle celle di Montefusco, di Procida, di Montesarchio, veniamo spostati, sballottati, incatenati ma, come se fossimo un anonimo prigioniero e compagno di cella di Don Domenico, insieme a lui resistiamo e parteggiamo per quella causa democratica che lo spinge, ormai anziano, a sperare e a seguire, anzi inseguire, Garibaldi. Sarà il resoconto della vita e degli ideali traditi però a farsi strada e a farci capire, ad un certo punto della lettura, la sua presenza in tutte le dolorose pagine scritte dal protagonista e, mentre leggiamo il romanzo, la sensazione è proprio quella di avere tra le mani non un libro di una casa editrice ma proprio lo “scartafaccio”, le pile di fogli inchiostrate da Don Domenico.
La Banti restituisce ai lettori la storia di un uomo che, pur rendendosi conto degli ideali traditi dagli altri, in cuor suo e malgrado le delusioni, non tradì mai né gli uomini né le idee e questo senza eroismo, senza retorica ma con semplice fede, con la semplicità di un anziano calabrese che da agitatore politico decide di scrivere le sue memorie, in realtà solo per se stesso e per avere attimi di pace casalinga. E mentre vediamo il protagonista ormai vecchio, sentiamo la voglia interiore di dirgli che nulla è perduto, che ancora possiamo combattere, che non è solo, che Castromediano e gli altri stanno organizzando una rivolta, che pare che Garibaldi abbia risolto i dissapori con Cavour…sarebbe don Domenico stesso a dirci come stanno realmente le cose e da un lato a cercare di fermarci e dall’altro a gettarsi giù dalla sedia per correre con noi alla battaglia.
“Noi, dolce parola. Noi credevamo…”