Abbiamo ascoltato incantati il nuovo album dei Crown of Autumn, Byzantine Horizons. Un meraviglioso mosaico che riesce a tenere assieme in modo assolutamente armonico sfumature musicali variopinte: dal death metal melodico sino a parti più propriamente power metal o addirittura progressive. Un gruppo che dopo oltre vent’anni di attività artistica – ma con poche produzioni qualitativamente alte – riesce ad esprimere con maturità tutta la propria abilità compositiva. La profondità dei testi, che assieme ai suoni riescono davvero a dipingere un paesaggio antico, sarà il tema principale della nostra intervista a Emanuele Rastelli, esponente di punta della band.
URSAE COELI: Il metal è un genere musicale non esattamente noto per la sua devozione cristiana. Voi Crown of Autumn avete invece prodotto un album che sa di patristica, di deserto e di Mediterraneo. Ti va di raccontarci del vostro percorso artistico ed ideale? Come vi siete evoluti col trascorrere degli anni?
EMANUELE RASTELLI: In quanto unico autore dei testi, il percorso tematico dei Crown Of Autumn è inevitabilmente tutt’uno con la mia ricerca personale. Inizialmente, nel periodo in cui uscirono sia il primo demo-tape Ruins (1996) che il debut-album The Treasures Arcane (1997), ero molto affascinato da tematiche legate alla mitologia, a partire da quella sumera – conseguenza del mio amore verso i mondi evocati da Lovecraft – fino a quella celtica. Era soprattutto verso quest’ultima che mi rivolgevo per ricercare le mie radici ataviche (Celti insubri). Contemporaneamente approfondivo l’aspetto più “paganeggiante” della tradizione cavalleresca medievale, dove in molti casi osservavo una perfetta consonanza e compresenza di simboli cristiani e precristiani. In quel periodo ero un teenager e nutrivo ancora quella sana avversione verso ogni ordine precostituito (sociale, religioso, politico ecc.) tipico dell’età adolescenziale. Il Cristianesimo non faceva eccezione, anzi. Ben presto però, per esigenze di onestà intellettuale, non potei fare a meno di notare molti elementi di grandissimo valore in questa tradizione; elementi estetici, artistici, simbolici ed esoterici davanti ai quali mi era impossibile restare indifferente. Così mi lasciai alle spalle certe antipatie iniziali e cominciai ad approfondire la storia, la filosofia la teologia e soprattutto la mistica cristiana, scoprendo gemme sempre più preziose man mano che mi addentravo in questo nuovo universo. Rimanevo però molto scettico e critico nei confronti di quella Chiesa moderna che avevo davanti agli occhi quotidianamente, percependo l’immane distanza tra la proposta parrocchiale e quell’inestimabile patrimonio maturato in più di duemila anni. Vedevo solo un’istituzione sociale che parlava di tematiche esclusivamente mondane e non avevo alcun desiderio di farne parte. L’incontro decisivo fu quello con l’opera del metafisico francese René Guénon. Il suo concetto di Tradizione Primordiale era esattamente ciò metteva ordine in tutte quelle svariate intuizioni, separate l’una dall’altra e non ancora razionalizzate, che avevo avuto durante il mio percorso. Fu l’autore giusto al momento giusto. La sua visione delle cose tendeva a non escludere nessun elemento ma, al contrario, ad includere tutto secondo una propria particolare funzione nell’ordine generale delle cose. Imparai il senso più profondo della parola “gerarchia”. Iniziai così ad interessarmi anche di tradizioni che non avevo mai approcciato prima, come l’Islam, l’Ebraismo, il Buddismo e l’Induismo. Presi parte ad un “Centro Studi Metafisici” che curava l’uscita di una rivista bimestrale (in quegli anni ancora in formato cartaceo), contenente articoli scritti da autori appartenenti a diverse confessioni religiose; io ero una delle voci cristiane. Contestualmente a ciò entrai in stretto contatto con una confraternita Sufi composta interamente da italiani convertiti all’Islam per ragioni di carattere eminentemente spirituale, quasi tutti sulla scia dell’insegnamento di Guénon. Furono loro a farmi comprendere la funzione e l’importanza di una corretta pratica religiosa – sia esteriore che interiore – non solo parlata, ma vissuta in prima persona. Così, non senza sacrifici o conflitti interiori che durano tuttora, divenni cattolico praticante a tutti gli effetti e presi il Sacramento della Confermazione all’età di ventiquattro anni. Ultimamente ho approfondito lo studio del mondo cristiano orientale, in particolare la tradizione della Chiesa Ortodossa greca e russa, ma anche delle altre confessioni cosiddette “bizantine”. Ho immediatamente avvertito una profondissima consonanza spirituale con questo modo di vivere il Cristianesimo, più rivolto alla dimensione dell’Eterno che a quella temporale e materiale. Il cuore di questa tradizione sta in un antico adagio dei Padri: “Dio è divenuto uomo affinché l’uomo divenga Dio” (Theosis). Ecco, questi sono per me gli “orizzonti bizantini” di cui dovremmo riappropriarci anche in Occidente.
UC: A mosaic within è un inno al superamento del dualismo. Un invito a costruire in sé un mosaico interiore, ossia a ricondurre la molteplicità che si è, ad una unità interiore. Abbiamo ben inteso? Inoltre il brano si chiude con una citazione da Isacco di Ninive, detto il Siro, noto per una visione fortemente non-dualistica della spiritualità, tanto da arrivare a sostenere che indubitabilmente l’amore di Dio giunge sino alle profondità della Geenna. Quanto è importante oggi riaffermare questa natura non dualistica del Cristianesimo e di ogni via spirituale regolare?
ER: Avete colto perfettamente il senso principale di questo brano. Si tratta appunto di ricomporre l’Unità originaria reintegrando in essa ogni singolo frammento (che è tale solo da un certo punto di vista), così come le tessere di un mosaico compongono la totalità dell’immagine rappresentata. Direi che riscoprire la non-dualità all’interno della nostra tradizione è di fondamentale importanza. Credo che il raggiungimento di una coscienza non-duale sia il fine ultimo di ogni religione. È importante sottolineare che in questo mosaico interiore ogni parte è ricondotta alla posizione/funzione che le è propria secondo l’armonia del Tutto; infatti non vi è nulla che dev’essere escluso, ma tutto reintegrato. Non si perviene a questo cercando di censurare le ombre, ma riconducendole alla posizione a loro funzionale, curandosi che non tentino di usurpare il posto riservato ad altri elementi. Qualsiasi capolavoro della pittura è attraversato da ombre e qualsiasi sinfonia ha in sé alcuni passaggi di momentanea dissonanza (mentre scrivo mi torna alla mente l’Ainulindalë, il bellissimo prologo al Silmarillion di J.R.R. Tolkien; pagine di una straordinaria valenza metafisica).
UC: Il secondo brano è dedicato a Dhul-Qarnayn, “quello dalle due corna”, che sarebbe secondo i commentatori l’epiteto di Alessandro Magno, come descritto nella XVIII sura del Corano (al-khaf, la caverna). Il che troverebbe conferma in Tabari XVI, 8 nel quale un detto del profeta parla del “greco che fondò Alessandria”. In questa sura si narra di come Alessandro abbia edificato un valico in ferro e rame per rinchiudere le genti di Gog e Magog, e di come alla fine dei tempi il Signore ridurrà in polvere quella barriera, lasciando che quelle genti calino le une sulle altre. A tuo parere, quale significato potrebbe avere questo racconto? Chi sono (o cosa sono) le simboliche genti di Gog e Magog?
ER: Proprio così: si tratta di genti simboliche. Come ogni simbolo anche questo può avere molteplici livelli di lettura, sia storici che metastorici. Gog e Magog non compaiono solo in Al-Khaf, ma anche nel libro dell’Apocalisse e – con connotazioni diverse – pure nell’Antico Testamento. Inoltre i loro nomi hanno una curiosa affinità con quelli dei demoni gemelli Koka e Vikoka di cui narra la tradizione Indù, precisamente il Kalki Purana nel quale si dice che i due mostri compariranno sulla Terra alla fine dei tempi per aiutare l’infera dea Kali nella sua lotta contro Kalki Avatara, ultima manifestazione del dio Vishnu nell’attuale ciclo storico. Credo rappresentino soprattutto le forze avverse che possono presentarsi sia nel mondo esteriore che nella nostra interiorità. “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” dice San Paolo nella Lettera agli Efesini. Senz’altro Gog e Magog sono figure collegate ad un certo simbolismo escatologico; diciamo che non sarei affatto stupito se un giorno questi popoli allegorici trovassero una loro più tangibile corrispondenza nella dimensione storica vera e propria.
UC: Il brano Scepter and soil tratta di elementi legati al simbolismo della croce….
ER: Esattamente. Lo “scettro” rappresenta l’asse verticale e il “suolo” quello orizzontale. Nel mondo moderno sembra che la dimensione verticale, cioè quella della trascendenza e degli “stati molteplici dell’essere” di guenoniana memoria, sia andata quasi completamente perduta. Tutto ciò a favore di un’orizzontalità che ormai occupa il 90% delle nostre vite, consumate in una prospettiva eminentemente temporale e materiale. Le re-integrazione del perfetto equilibrio tra i due bracci della croce è anche il fine di qualsiasi autentica Via spirituale. Si tratta di ricollocare la nostra coscienza nel punto cruciale, intersezione dei due assi; in altre parole occorre ritrovare il Centro, che nel simbolismo corporeo corrisponde al cuore. Non a caso è proprio dal Sacro Cuore di Cristo che zampilla la Redenzione.
UC: Lo sposo dell’orizzonte è un brano magnifico, che si differenzia dagli altri per via della sua composizione elettronica impreziosita dalla splendida voce femminile. Ci vuoi spiegare cosa vi ha ispirato nella composizione di questo meraviglioso testo sul Cristo? “Sol invictus deus – sorto dall’Oriente. Sol invictus deus – dinnanzi a te ogni cosa è impermanente”. Ci interessa in questo brano anche il simbolismo della rugiada. Torna alla mente il Salmo 133, nel quale la rugiada che dall’Hermon scende sui monti di Sion è rappresentativa della benedizione divina…
ER: Si tratta del brano più atipico di “Byzantine Horizons”, l’unico interamente privo di elementi Rock-Metal. E’ una canzone che riflette in maniera piuttosto evidente l’esperienza fatta con i Magnifiqat, progetto al quale partecipammo sia io che Mattia. Lo sposo dell’orizzonte è il Figlio, freccia scoccata dal Padre per mezzo della corda vibrante dello Spirito Santo. Il Figlio, raggiungendo tramite l’Incarnazione l’estrema periferia del Cosmo (la nostra dimensione corporea e temporale), è divenuto simbolicamente quel raggio che ricollega il centro (Creatore) alla circonferenza (Creazione), per costituire finalmente la nuova ed eterna alleanza. La Redenzione, in questa prospettiva, è un evento cosmico.
UC: Everything evokes sembra alludere alla decadenza contemporanea, alla guerra sottile che vi agisce, ed alla necessità di raggiungere uno stato impersonale ed imperturbabile per resistervi. Ritieni sia principalmente questa la forma di lotta adatta ai tempi? Anche il brano successivo, Whores for Eleusis, che cita il Pound del canto XLV, sembra essere una critica feroce alla modernità. Emanuele, cosa sta accadendo all’uomo? Come si può risalire questa corrente che tutti trascina?
ER: Ritengo che l’unica forma di lotta praticabile, in qualsiasi periodo storico, sia quella proposta in maniera emblematica dalla Bhagavadgita. In questo testo fondamentale della tradizione indiana viene spiegato che l’azione più pura, sensata ed efficace, scaturisce soltanto da un salto di qualità interiore attraverso il quale si arriva a comprendere che la natura più profonda delle cose è l’Unità. Nel Canto del Beato l’esito di questa rivelazione non è – come si potrebbe pensare – il trionfo di un pacifismo universale. Al contrario Krishna, che rappresenta la voce dell’Assoluto, esorta il nobile guerriero Arjuna (e con lui tutti gli esseri umani) a compiere il proprio dovere, quello di guerriero, affrontando sul campo di battaglia addirittura i propri parenti e maestri. Nel farlo però, deve mantenere un’alta imperturbabilità interiore che lo rende equanime davanti alla vittoria e alla sconfitta; imperturbabilità che scaturisce proprio da quella pace interiore che solo l’intuizione dell’Assoluto può dare. L’atto viene quindi compiuto per la sua giustezza intrinseca, non per un determinato tornaconto e nemmeno per una motivazione di carattere sentimentale. Nel mondo manifesto, temporale e tridimensionale in cui viviamo, abbiamo tutti una nostra precisa funzione. Bisogna quindi affrontare contemporaneamente la battaglia esteriore, legata al ruolo che la Provvidenza ci ha assegnato nella Storia, e quella interiore, volta al conseguimento della vittoria spirituale sulla tirannia del nostro ego. Tutte le tradizioni propongono un atteggiamento analogo; la “duplice vittoria” di San Bernardo di Chiaravalle contro i demoni interiori ed esteriori, oppure il piccolo e il grande Jihad della tradizione islamica. Credo che il nostro periodo storico sia caratterizzato da una diminuzione sempre più evidente della dimensione del Sacro. Si è persa quasi totalmente la capacità di inserire le nostre vite in un contesto più grande di esse, riducendo quest’esistenza mortale a puro individualismo sentimental-materialistico. Questo scollegarsi dal Cosmo genera come conseguenza una inevitabile mancanza di ossigeno per l’anima, motivo per cui la nostra società pare letteralmente annaspare. Secondo alcuni pensatori, i cosiddetti “tradizionalisti” o “perennialisti”, si tratta di un inevitabile susseguirsi di cicli storici che, partendo da un’Età dell’oro collocata in un mitico passato a metà tra tempo ed eternità, rotolano progressivamente verso il basso con velocità esponenziale, fino ad arrivare all’Età oscura in cui ci troviamo ora. Questa visione ciclica della Storia era condivisa da moltissime popolazioni del mondo antico. Anche nella Bibbia si trovano tracce di questo insegnamento; nel Vecchio Testamento con la “Statua di Daniele” e nel Nuovo Testamento con i “quattro cavalieri” descritti nell’Apocalisse di Giovanni. Personalmente, avendo una forma mentis essenzialmente platonica, tendo sempre a vedere la realtà fisica come una sorta di conseguenza di una realtà metafisica che la precede, anche se non in senso propriamente cronologico. Per tal motivo trovo che questa immagine dei cicli discendenti abbia un suo senso profondo. La causa prima di questa discesa progressiva è da ricercarsi nella Volontà Divina che regola tutto secondo giustizia. Si tratta quindi di una legge cosmica, come molte altre. Non mancano però delle “cause seconde”, ovvero delle forze temporali ben precise il cui scopo è favorire in ogni modo la dissoluzione di ogni ordine. Tali forze, vengono utilizzate da Dio per portare a compimento Suo disegno, ma dal nostro umano punto di vista restano sempre e comunque forze avverse e nemiche. Le due prospettive si contraddicono solo in apparenza, in realtà coesistono perfettamente, ognuna secondo il livello che le è proprio. Abbiamo un chiaro esempio di questo in Matteo 26, quando si parla del tradimento di Giuda Iscariota: “Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”.
UC: Roman Diary è un tributo alla Roma antica, al senso di arcaicità che si prova respirando la sua aria primaverile. Emanuele, solitamente si cerca di costruire una visione della storia nella quale la romanità ed il cristianesimo sarebbero da considerarsi persino antitetici, e perciò uniti in un matrimonio innaturale dopo la cristianizzazione dell’Impero; eppure la ragionevolezza ci indica che questa visione non può che essere una forzatura eccessiva. Quanto peso ha avuto a tuo parere la romanità nello sviluppo del pensiero cristiano? Quanto peso ha la romanità nel tuo essere cristiano?
ER: Si deve partire dal Principio, prima che dalle singole culture. Se si è convinti che l’origine di ogni cosa sia divina, e che quest’Origine sia unica e la stessa per tutti, allora si riconosce alle diverse forme particolari della Tradizione una medesima dignità, pur nella differenza provvidenziale delle funzioni. Per me le città natali del Cristianesimo sono idealmente tre: Gerusalemme, Atene e Roma. Questo era infatti l’orizzonte culturale di quel tempo, in quella parte del mondo dove il Cristianesimo nacque e si sviluppò. Sempre sulle orme di un grande maestro come René Guénon, credo che le varie forme tradizionali vengano donate a uomini di latitudini ed epoche diverse, a seconda della loro differente sensibilità. Nel Corano è scritto: “Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti ritornerete, allora Egli vi informerà di quelle cose per cui ora siete in discordia!”. Una nuova forma tradizionale subentra quando un’altra ha ormai esaurito il suo ciclo vitale e non ha più nulla da offrire se non residui che possono persino risultare dannosi. Gesù Cristo è l’Incarnazione del Logos, ma il Logos precede l’Incarnazione storica di Gesù Nazareno, poiché il Logos è “in principio” e “per mezzo di Lui tutte le cose sono state create”; e ancora: “prima che Abramo fosse, Io Sono”. Il medesimo Logos eterno ispira le varie strade che l’uomo percorre per raggiungere la dimensione divina e lo fa secondo un Suo misteriosissimo disegno. Precisato ciò, parrà evidente che quella contrapposizione tra Tradizione Romana e Tradizione Cristiana, tipica soprattutto di certi ambienti, non ha un solido fondamento metafisico. Si basa piuttosto su motivazioni più o meno valide di carattere etico ed estetico. Alcune argomentazioni fornite dai sostenitori di questo “scontro di civiltà” tardo-antico, hanno un loro interesse e meritano di essere discusse, ma senza faziosità ideologica. Mi pare infatti che sia più che altro una certa ideologia a guidare la maggior parte di questi signori, spesso mossi da un atteggiamento adolescenziale di anticristianesimo ribelle ed individualistico, molto simile in fin dei conti a quello “sessantottino” (anche se di colore opposto). In altre parole: in un certo tradizionalismo incapace di umiltà e onestà spirituale, mi pare di vedere perfettamente espresso quello stesso Zeitgeist moderno che a parole viene ferocemente contestato. Purtroppo possiamo constatare la stessa visione (anche se intesa nel senso inverso) da parte cristiana, con i cattolici esclusivisti che non sono certo meglio. Tendono a liquidare le tradizioni precristiane come oscure, moralmente discutibili, spiritualmente fuorviate o addirittura sataniche. Inoltre non hanno nessuna apertura autenticamente metafisica e universale ma anzi, tendono a rivendicare per la propria confessione religiosa, l’unica vera legittimità, negando così dignità spirituale a tutto ciò che è venuto prima, durante e dopo il Cattolicesimo.
UC: Ci descrivi le tematiche che hanno ispirato il brano Lorica, nel quale descrivete uno scenario apocalittico?
ER: Si tratta di uno di quei brani contenuti in Byzantine Horizons in cui descriviamo, tramite varie allegorie, la decadenza dei tempi attuali. La parola Lorica è normalmente riferita alla corazza usata dai soltati dell’antica Roma, ma è chiamata così anche quella particolare preghiera di protezione introdotta da San Patrizio, patrono di Irlanda. Questa bellissima preghiera infatti è anche detta “Corazza di San Patrizio”. Diciamo che il senso generale del brano sta proprio in questo doppio significato di corazza esteriore ed interiore. Come dicevo prima riferendomi alla Bhagavadgita, credo che questo atteggiamento sia più che mai valido al giorno d’oggi per fronteggiare i tumulti (visibili e invisibili) che si abbattono sulla nostra società.
UC: Il filosofo Alasdair McIntyre, nel suo “Dopo la virtù, spiega come a suo parere l’unica possibilità di uscita dal pantano contemporaneo sarebbe la venuta di un nuovo San Benedetto, che come il monaco di Norcia rinunci a puntellare le rovine dell’esistente, preoccupandosi di riedificare qualcosa di nuovo, su nuove fondamenta. Abbiamo noi oggi delle fondamenta sulle quali costruire? E con quali architetti potremmo farlo?
ER: Come prima cosa sottolineerei il fatto che una rivivificazione come quella operata da San Benedetto è avvenuta dall’interno della Chiesa (come anche quella di San Francesco d’Assisi) e non in opposizione ad essa. Mi preme dirlo poiché la tentazione di un nuovo scisma è sempre presente. Ma ogni lacerazione che la Chiesa ha dovuto subire è sempre stata foriera di disgrazie maggiori rispetto a quelle che si volevano contrastare, pur in buona fede. Il primo grande scisma nella storia della Chiesa, quello d’Oriente, nacque dal fatto che alcuni cattolici spagnoli (Concilio di Toledo, 587), al fine di contrastare l’eresia ariana, vollero modificare il Simbolo Niceno-Costantinopolitano, (la famosa questione del Filioque), rendendolo più funzionale a quella loro pur giusta battaglia momentanea. Così facendo però, anteposero un problema ancora tutto sommato circoscritto ad una verità dottrinale, causando inevitabilmente drammatiche conseguenze. Lo stesso avvenne poi con Lutero e la sua critica verso quegli aspetti oggettivamente decadenti della Chiesa Cattolica del suo tempo. Ma di nuovo fu sradicato il grano insieme alla zizzania, con conseguenze, questa volta, ancor più nefaste. Quella di San Benedetto fu una risposta laterale, trasversale, ma allo stesso tempo anche netta e chiara. Le fondamenta da cui ripartì San Benedetto sono le stesse dalle quali ripartì ogni santo restauratore della Chiesa: il Signore Gesù Cristo, Logos incarnato e Uomo-Dio. Lui è il fondamento per una vera rivivificazione della Chiesa Cattolica. Oggigiorno bisogna riappropriarsi di una mentalità simbolica; bisogna riscoprire il Sacro nella religione. Questo è la “pietra d’angolo”. Non è compito dei soli prelati, ma nemmeno della sola iniziativa dei fedeli. Ogni cattolico che avverta questa vocazione è chiamato ad un lavoro di coraggio, fatica e sacrificio, sia egli un laico, un frate, un monaco, un sacerdote, un vescovo, un cardinale o il Papa stesso. Occorre creare dei canali di comunicazione, collaborazione e divulgazione concertata di questa weltanscauung su tutti i livelli: metafisico, teologico, filosofico, etico e artistico; via, via fino ad irradiare di giustizia e bellezza la semplice vita di tutti i giorni.
UC: Nel 2018 è stato pubblicato un libro di Rod Dreher, L’opzione Benedetto. Secondo l’autore, in un mondo che si scristianizza, la corretta strategia da adottare non dovrebbe più essere l’azione politica o sociale, ma la costruzione di reti e comunità di resistenza all’interno delle quali barricarsi, fisicamente o anche solo idealmente. Cosa ne pensi?
ER: Non conosco Dreher ma concordo sul fatto che la sola azione nella dimensione orizzontale non può nulla contro la tirannia della dimensione orizzontale stessa; sarebbe assurdo crederlo. Occorre invece partire da quel “recupero della mentalità simbolica”, di cui parla spesso Monsignor Marco Busca, Vescovo di Mantova. Riappropriarsi della dimensione autenticamente spirituale e cosmica è assolutamente urgente e necessario. Barricarsi non serve a nulla se ciò viene inteso come sinonimo di autoesclusione e settarismo. Bisogna fare tutto alla luce del sole, anche nella più profonda contemplazione. Il Monachesimo è l’esempio più fulgido di ciò che intendo dire. Una realtà comunitaria, che ha certamente dei confini ben precisi (le mura del monastero) ma è al tempo stesso in continuo contatto e dialogo con il resto della Chiesa, incarnando così la perfetta armonia e complementarietà di interiorità ed esteriorità, o esoterismo ed essoterismo se si preferisce (entrambi etimologicamente intesi).
UC: Benedetto XVI cercò di riaprire il dialogo col cristianesimo ortodosso. Bergoglio pare invece avvicinarsi sempre più al mondo luterano. Cosa ne pensi? Come mai l’orizzonte bizantino sembra sempre più lontano?
ER: In tempi recenti il primo ponte significativo venne gettato dalla Lettera Apostolica Orientale Lumen di Giovanni Paolo II. Questo per via della sua vocazione ecumenica, non solo verso le altre confessioni cristiane ma perfino verso le più lontane tradizioni religiose (vedi gli incontri di Assisi). In seguito Benedetto XVI continuò sulla via del dialogo, anche se credo fosse personalmente meno propenso nei confronti delle religioni non cristiane. Certamene, in virtù del suo amore verso la tradizione millenaria della Chiesa, la sensibilità del Papa Emerito è più in armonia col modus bizantino che non con quello protestante. Inoltre la Chiesa Ortodossa tiene in grande considerazione il lavoro anti-relativistico e anti-modernista di Ratzinger, tanto che lo stesso Patriarcato di Mosca, nella persona del Metropolita Hilarion, nel 2017 si recò personalmente al Monastero Mater Ecclesiae in Vaticano, per rendergli omaggio. Per Bergoglio le cose stanno diversamente. Essendo la Chiesa d’Oriente essenzialmente pneumatica e rivolta alla dimensione contemplativa, oltre che legata alla tradizione e immune a un certo tipo di lusinghe, credo sia considerata da Papa Francesco come una realtà passatista, anacronistica e non sufficientemente attiva nella carità materiale. Il gusto di Bergoglio è senza dubbio molto più consonante con l’approccio Luterano. Meno “fronzoli”, più vicinanza al mondo e al tempo presente; un approccio più filosofico (nel senso moderno del termine, ovviamente) e meno mistico. Senz’altro, dal suo punto di vista, è questa la confessione cristiana più adatta oggi, quella che (per lui) parla davvero al cuore delle persone. A mio avviso gli errori di Bergoglio sono essenzialmente due. Il primo è quello di sottostimare la dimensione del Sacro. Il secondo (figlio del primo) è quello di puntare tutto su una religiosità sociale e politica. Ma una tale prospettiva è per sua natura divisiva; in politica – salvo rarissime eccezioni particolarmente illuminate – o si sta da una parte o si sta dall’altra. Il risultato finale è questo: su un piano più vasto, Francesco esclude implicitamente tutti coloro che hanno una sensibilità maggiormente legata alla contemplazione. Su un piano strettamente politico, esclude tutti i cattolici che non condividono le sue idee dichiaratamente progressiste. Si creano così due grandi vuoti, poiché vengono completamente a mancare i punti di incontro e di sintesi in cui tutti i fedeli, pur nelle diversità, possono ritrovarsi.
Grazie, Emanuele Rastelli, complimenti per il vostro lavoro e buona continuazione.
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