Un pensiero forte della contemporaneità, tarlo tormentoso, crescente e bruciante spina nel fianco dell’occhiaiuto insonne vagante, se non come titolo del proprio manifestarsi, almeno dovrebbe avere come frase apicale questa: il delicato al di là del Capitalismo. Annosa questione: il filosofo che maggiormente coincise con la più scientifica disamina e critica del Capitalismo anglosassone, si perse nel bicchiere d’acqua dell’impossibilità dell’uscita dai confini della propria razionalità.
D’altronde, Karl Marx non ne ebbe colpa: l’epistemologia in quanto studio delle condizioni storiche era ancora al di là da venire, e ad accorgersi del problema furono soprattutto i francesi – Foucault e Derrida -, mentre i tedeschi si godevano gli ultimi fasti dei banchetti francofortesi, velocemente relegati all’oblio dall’austerity del pensiero post-rivoluzionario e social-democratico di Jürgen Habermas. Marx pensava, dunque, che lo sviluppo sarebbe stato incessante e che il modello industriale non sarebbe dovuto essere eliminato, bensì regolato in differente maniera: mezzi di produzione e surplus sarebbero dovuti essere in mano al proletariato.
Inoltre, Marx pensava, come ancora fanno Herbert Marcuse e Gilbert Simondon cento anni dopo, che la tecnica fosse qualcosa di neutrale e che andasse semplicemente governata. La tecnica associata al Capitalismo, di per sé, non sarebbe stata oppressiva, se avesse consentito di liberare il lavoratore dalla fatica del lavoro, per poter liberare le autentiche velleità e capacità dell’individuo. Questo doppio movimento del pensiero in Marx è qualcosa di paradossale. Da un lato Marx è impossibilitato a pensare un’uscita dal Capitalismo, pur avendo torto riguardo lo sviluppo, dall’altro lato Marx non comprende il rapporto tra tecnica e Capitalismo, pur avendo bene presente come l’avvento delle macchine abbia generato la divisione del lavoro, la perdita del lavoro da parte di molte persone – il comodo esercito degli inoccupati -, l’alienazione e il fenomeno che nel Libro I de Il Capitale, nel capitolo dedicato alle macchine e alla grande industria, descrive come produzione delle macchine da parte delle macchine (quindi, pur avendo capito tutto benissimo!).
Allora, Marx nel torto possiede la ragione, perché riguardo la tecnica enuclea una serie di aspetti che rendono ancora contemporanea la sua analisi, dato che il non previsto al di là del Capitalismo produttivo sembra assumere la forme della produzione post-umana. D’altronde, il Capitalismo produttivo ha vissuto le sue crisi più celebri sotto l’egida della dépense, alla faccia della teoria della rarefazione: l’impossibilità di smercio del ’29 e dei recenti anni hanno mostrato che il Capitalismo si blocca quando il flusso di vendite collassa, chi lavora non può consumare e crolla il benessere diffuso che tiene in piedi il consumismo. Il Capitalismo è dispendio, è un’orgia produttiva, è l’oltre-consumabile reificato, è il rendersi oggetti/merce, lo sprecarsi dell’uomo in pensiero del nulla. Ma il dispendio non è gratuito? E il Capitalismo non produce per dispendio, ma per profitto?
Le analisi di Bataille sul concetto di economia e dépense, si vedano in proposito Il limite dell’utile e La nozione di dépense, mostrano l’ambivalenza del concetto: il dispendio è apparentemente non finalizzato. Si può allora parlare di un Capitalismo il cui dispendio produttivo è finalizzato all’utile e che per questo incrementa sempre e a dismisura le proprie capacità produttive e di utile attraverso l’automazione. Non è difficile immaginare catene di montaggio completamente autonome, nelle quali gli uomini non fanno nemmeno manutenzione – ci sono i software a farlo al posto loro e i manutentori automatici.
Non si tratta di distopiche visioni, piuttosto della certezza di quello che già avviene, si pensi ai magazzini dei colossi della distribuzione online o ai corrieri droni. Si tratta della certezza che gli ingegneri meccanici e informatici non si prenderanno mai la briga della responsabilità di quello che fanno, cioè di chiedersi, come direbbe Vilém Flusser, come può essere usato e quali conseguenze ha ciò che si inventa [Filosofia del design], perché sono una delle ultime forme di lavoratori inclusi nel consumo, pur con stipendi sempre più al ribasso.
L’al di là del Capitalismo, allora, è questo spazio che sopravvive all’invasione della merce automatizzata. Si tratta di uno spazio fragilissimo, delicato più del fiore cristallizzato dal gelo dello zero assoluto siderale, uno spazio aporetico dove l’uomo è ancora funzionale al Capitalismo in quanto escluso e ancora immerso nell’ideologia del consumo: seduzione, desiderio, immaginario. Un luogo in cui il dominio del principio di realtà assume l’imperativo perverso e osceno dell’adesione estetica, più che etica, alla grande abbuffata cannibalica del residuale consumismo. Aporetico, si diceva, perché questo luogo è anche quello della possibilità, quello dello scarto e dell’uscita non programmata, quello dell’evento e della resistenza. Questo al di là, insomma, assume sempre di più le fattezze dell’aldilà.